Robertino, vero nome, età, carriera, canzoni, vita privata: chi è il cantante
«Uno dei miei ultimi concerti l’ho fatto a Kharkiv, nell’aprile 2016, in quella piazza grande come dieci piazze nostre. C’erano migliaia di giovani con le fiamme degli accendini. Chissà quanti di quei regazzetti mi avrà fatto fuori, Putin! E quelle ragazze, con 32 perle in bocca…Non ci posso pensare, me piagne er core».
PIANTI E RICORDI – A Roberto Loreti, in arte e in musica Robertino, 75 anni, piangono anche gli occhi quando parla dell’Ucraina. A Kiev è una star da più di mezzo secolo. «E anche a Mosca, se è per questo. E in Daghestan, Bielorussia, Kazakistan, Georgia, Armenia, Kirghizistan, Lituania, Estonia, Moldavia », aggiunge in una filastrocca che per lui è nostalgia e per Putin un piano militare. Una fama insondata – solo il regista e scrittore emiliano Marco Raffaini ci ha scritto sopra un libro (uscito, per ora, in russo) – e insondabile, visto che si stima abbia venduto quasi 60 milioni di album solamente nell’ex Unione Sovietica. In Italia, Loreti ebbe una celebrità istantanea e illusoria. A 17 anni conquistò Sanremo con Un bacio piccolissimo. Poi, il declino, la scomparsa. Colpa di un “no”. E merito di un “sì”. Il “no” Robertino lo oppose «a un critico influentissimo, che stava in tutte le giurie di tutti i concorsi, da Canzonissima in giù: voleva stare con me e non era il mio sport». Il “sì” lo appoggiò all’offerta di Vilmar Sorensen, pianista e produttore danese. «Mi vide al Caffè Grand’Italia, in piazza Esedra, a Roma. Avevo 13 anni e una voce che fermava il traffico. Pensi che Totò mi dava una mancia di 50 mila lire, quasi venti volte il mio ingaggio settimanale, perché gli cantassi la sua Malafemmina e Marechiare. Vilmar mi offrì di seguirlo a Copenhagen, ci andai con mio padre». Risultato: show televisivi, tournée lunghe mesi in tutta la Scandinavia, l’ammirazione sconfinata di De Gaulle («Mi chiamava “le nouveau Caruso”»), un mito bambino che si espande ovunque, nei teatri più prestigiosi (anche a New York: Carnegie Hall, Madison Square Garden), tranne che da noi.
In Unione Sovietica come ci arrivò? «Come in un romanzo di spie. Tramite un baratto, al confine tra Russia e Finlandia, lungo la cortina di ferro: i soldati finlandesi erano rimasti senza sigarette, le chiesero ai colleghi russi e in cambio diedero un disco mio, che poi venne copiato e dilagò dappertutto. In Finlandia, ero un mito: con Mamma, O sole mio e Spazzacamino ero primo, secondo e terzo in classifica. Dietro di me: Nat King Cole e Charles Aznavour. Elvis Presley all’epoca cantava It’s now or never: decimo».
Come scoprì di essere famoso in Urss? «Molto più tardi, sul letto di una clinica romana dove mi portarono quando, posando sugli sci per una rivista norvegese, caddi e quasi mi ruppi l’osso sacro. Arrivavano centinaia di lettere, e molte
erano in cirillico. Ragazze, soldati, professoroni che si offrivano di operarmi a Mosca. Laggiù, mi dicevano, avrò venduto 58 milioni di dischi. Non ho visto una lira, lì non esistevano i diritti».
La storiografia ufficiale vuole che la passione dei russi per i nostri cantanti sia iniziata nel 1984, quando Gorbaciov permise che si trasmettesse Sanremo. «La verità è che a far da apripista ai vari Toto Cotugno, Ricchi e Poveri e Al Bano è stato Robertino. Li ho ‘mbriacati bene bene di musica italiana, i russi, ma nessuno me l’ha mai riconosciuto. Sa cosa disse Kruscev al nostro presidente Gronchi? “Lei viene dalla patria di Michelangelo, Leonardo, Raffaello e… Robertino
E Gronchi? «Non sapeva chi fossi. Come Mastroianni, che nel 1993 mi volle incontrare e mi disse: “Ogni volta che vado a Mosca, appena sentono che sono italiano, gridano: “Come Robertino!”. Era malato, mi confidò: “A Robbertì, sento il fiato della morte sul collo” (morì tre anni dopo, ndr)».
E lei quando andò a cantare a Mosca? «Nel 1989. Il primo politico che conobbi fu Boris Eltsin. Quello era un Presidente! Certo, beveva un po’, chi lo può negare… Però era un uomo dolce, con un sorriso meraviglioso e aperto. Mica
come Putin».
L’ha conosciuto, Putin? «Ci siamo incrociati più volte, stava sempre rigido. Mi veniva da dirgli: “E rilassate, a Vladimir!”. Un giorno mi fecero una intervista alla radio e lo sfidai: “Perché non ci incontriamo su una materassina di judo, io e te? Solo due round”. Sono cintura nera 6° dan. Ero forte, ora mi vede malconcio perché il 21 giugno del 2016, due giorni dopo il mio rientro da una tournée in Russia, Ucraina e Kazakhistan, ho avuto un ictus».
Che ricordi ha dell’Ucraina? «Dolcissimi. Anche i russi sono bravi, però vivono come suonano: sempre un po’ marziali. Gli ucraini hanno un cuore infinito. Mi ricordo quando cantai Granada all’Opera di Odessa, in smoking, con un’orchestra di 180 elementi: il pubblico migliore del mondo. Prego tutti i giorni, per loro. Posso fare una promessa?».
Certo. «Ora sono fuori allenamento, mi muovo a fatica, ma la voce mia non si è spenta. In Russia, finché c’è Putin, non canterò. In Ucraina, appena arriva la pace, ci vado di corsa, pure se ho il bastone. Anche solo per portare dei fiori in quella piazza grande come dieci piazze nostre, come si chiama… Ah sì, Svobody: piazza della Libertà».