Novak Djokovic, ultime notizie: pericolo arresto. Cosa sta succedendo

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Il problema è che è davvero difficile mettere addosso a Novak Djokovic il saio del martire: troppo molesto il suo oltranzismo no vax; e troppo rumoroso il suo clan, con il padre che ha ammucchiato iperboli su Twitter («Lo hanno trattato come un terrorista a Guantanamo»; «È come Gesù») e i parenti fino al quarto grado a dar prova di arroganza sui social e in società. La soluzione allora è considerare questa farsa – il titolo di “saga”, usato dappertutto, avvicina al Trono di Spade una vicenda che somiglia più a L’aereo più pazzo del mondo – come una recita penosa in cui tutti perdono tutto, in primis la faccia.

La storia è arci-nota: Nole Djokovic, numero 1 del tennis mondiale, atterra a mezzanotte del 6 gennaio a Melbourne per cercare di vincere il suo decimo Australian Open. In tasca ha un visto con l’esenzione dalla quarantena perché ha contratto il Covid venti giorni prima, e ne è guarito quasi subito. L’ufficio immigrazione, ovvero l’Australian Border Force – denominazione che lascia intendere come da quelle parti interpretino in maniera muscolare la missione di difendere i propri confini – lo sottopone a sette interviste (ma il termine esatto sarebbe “interrogatori”), durate tutta la notte, dalle 0.21 alle 6 inoltrate.

Poi gli revoca il visto, perché Nole ammette di non essere vaccinato e l’esibizione del tampone positivo fatto a Belgrado non commuove il doganiere: la regola è che servono almeno due dosi di vaccino, che nel mondo anglosassone chiamano jab, come il colpo “interlocutorio” del pugile e la siringa di chi si fa di coca o di morfina. Djokovic viene deportato al Park Hotel di Carlton, sobborgo di Melbourne vicino allo stadio dove dal 17 gennaio si giocheranno gli Open, che non è (più) un hotel, tantomeno con…park: è stato riconvertito in un centro di detenzione per rifugiati o immigrati non del tutto o non ancora regolari (il sito ufficiale continua però a presentarlo come un albergo 4 stelle lusso, e promette stanze a partire da 70 euro).

Alla fine, dopo quattro giorni di “prigionia”, il giudice Anthony Kelly decide che a Djokovic va restituito il visto, e che il ministero degli Interni debba pagargli pure le spese: non perché “Novax” abbia ragione nel merito, ma perché è stato leso il suo diritto di difesa.

Alle 4.11 di mattina, esausto per il viaggio e per le complicazioni burocratiche, aveva chiesto di poter usare il cellulare (che era stato spento e requisito) e/o dormire fino alle otto e mezza per avere le idee più chiare, chiamare i propri avvocati e magari gli organizzatori dell’Australian Open. L’impiegato del Border Force, che i giornali locali definiscono overzealous (troppo zelante), lo gela: «Chiamare i tuoi avvocati non ti aiuterà, facciamo che decido subito perché voglio chiudere questa faccenda prima che finisca il mio turno».

Quando Kelly gli ha restituito il passaporto e la dignità, Nole ha esultato ed è corso ad allenarsi, a Belgrado sono partiti i caroselli, ma la partita è rimasta in bilico: l’Australia è patria (anche) di cavilli, e il ministro dell’Immigrazione Alex Hawke può usare un altro “set di poteri” per ribaltare quanto deciso dal giudice Kelly e accettato dal ministro Interni KarenAndrews. Al momento in cui scriviamo, Hawke non si è ancora pronunciato, ma è probabile trovi una ragione non “ideologica” – per esempio il fatto che Nole abbia mentito sui suoi viaggi pre-sbarcoaMelborne – per rispedire il tennista a Belgrado.

CHE CONFUSIONE! Quel che è rimasto fuori dai riflettori è come si è arrivati a questo incredibile pasticcio: il “prima delle quinte”, l’innesco della bomba. Bisogna tornare indietro di due mesi, al 10 novembre 2021. Le danze le apre Craig Tiley, il capo del Tennis Australia, che organizza gli Open: scrive all’Atagi, l’equivalente aussie del nostro Cts, e chiede «quale sarà il trattamento riservato ai giocatori non vaccinati, perché ne va della riuscita del torneo» (in testa ha, ovviamente, il numero 1, Djokovic).

La risposta arriva dopo una settimana e, anziché rassicurare, aggiunge suspense: i visti non si possono autorizzare o analizzare preventivamente, ma verranno esaminati solo al check in, e cioè all’ingresso in Australia. Il 18 novembre, un’esponente di spicco dell’Atagi, Lisa Schofield, è perentoria: chi ha avuto il Covid, ma poi non si è vaccinato, non ha diritto a “saltare” la quarantena (lo stesso concetto verrà ripetuto agli organizzatori del torneo dieci giorni dopo dalla massima autorità in materia: il ministro della Salute Greg Hunt). Il 22 novembre entra in scena il capo dei medici del Tennis Australia: scrive a Brett Sutton, capo del Dipartimento medico dello Stato di Victoria (che ha per capitale Melbourne), per sapere se chi ha avuto il Covid negli ultimi sei mesi, e lo dimostra con un certificato, può entrare nel Paese senza il disturbo della quarantena (e delle due dosi di jab).

Riceve risposta affermativa il 2 dicembre, e la gira trionfante ai giocatori. Il 10 dicembre è il termine ultimo per iscriversi con l’esenzione dal vaccino: Djoko c’è. Quattro giorni dopo posa con il cestista del Barcellona Nigel Hayes-Davis, che l’indomani viene trovato positivo al Covid. Lo è anche Nole, come attesta il test molecolare che gli rilascia l’Istituto della Sanità Pubblica della Serbia. Il problema è cheDjoko partecipa, da positivo, ad almeno tre eventi pubblici: nell’ultimo, sta in mezzo a un nugolo di giovani tennisti serbi. Senza mascherina. Il 1° gennaio Nole mostra una dichiarazione del governo australiano che attesta che lui «soddisfa tutti i requisiti per un ingresso nel Paese senza quarantena». Tutto il resto è storia.

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