Come finisce Il colibrì: trama e finale
Si parte dal presupposto che una sceneggiatura non possa mai sostituire appieno e in egual misura il testo di un romanzo, specialmente in un’opera come “Il colibrì”, che ha valso a Sandro Veronesi il prestigioso Premio Strega e ha ottenuto un notevole successo di pubblico.
La regia di Francesca Archibugi e il contesto sociale
Alla regia di questo film troviamo Francesca Archibugi, regista che continua a esplorare tematiche legate alla borghesia italiana. Il protagonista, Marco Carrera, rispecchia i personaggi centrali della nostra letteratura borghese, simili a quelli presenti ne “Il Giardino dei Finzi-Contini”, incarnando stereotipi e blocchi emotivi tipici. Marco è un simbolo di immobilismo e insoddisfazione, intrappolato in una vita caratterizzata dalla nostalgia per un passato irrecuperabile. È sposato con Marina, una bella hostess dalle origini balcaniche, affetta da evidenti patologie psichiche che emergono nel corso della trama. Il suo cuore, tuttavia, appartiene all’ideale d’amore della sua giovinezza, Maria Lattes, con la quale intrattiene un rapporto platonico e inafferrabile, distante dall’intimità fisica.
La narrazione si arricchisce di un intrico di accuse e fughe, in cui la moglie traditrice di Marco trova giustificazioni per le sue inclinazioni verso il vizio.
Tematiche di vita e morte
Tuttavia, l’elemento centrale di questo racconto non è l’amore, bensì l’immensa e distruttiva tensione tra vita e morte, in cui la fine sembra primeggiare. I personaggi presentano tutti tratti distruttivi: i genitori di Marco, interpretati da Laura Morante e Sergio Albelli, sono intrappolati in una relazione di odio nonostante l’incapacità di separarsi; il fratello minore di Marco è segretamente innamorato di Maria, generando un profondo risentimento; la figlia di Marco è descritta come un personaggio maledetto, destinato a una vita di sofferenza; infine, la stessa Maria Lattes oscillando tra scelte di vita diverse. La vita di Marco, soprannominato “Colibrì” sin dall’infanzia, appare stagnante, bloccata in un ciclo di sofferenza e impotenza di fronte al destino avverso. Tutto è instabile e precario, un ciclo di eventi che si ripete incessantemente, rendendo la vita dei personaggi claustrofobica.
Una narrazione discontinua
Seppur ricca di spunti sulle dinamiche familiari disfunzionali e sulla solitudine, la storia fatica a fluire, soffocata da una struttura narrativa eccessivamente frastagliata. La sceneggiatura e lo sviluppo psicologico dei personaggi non sono sufficientemente approfonditi, portando a una mancanza di coinvolgimento emotivo. Solo Marco Carrera risulta ben definito; gli altri personaggi rimangono relegati a ruoli secondari, poco esplorati. L’adattamento cinematografico ha difficoltà a colmare il dislivello tra romanzo e film, con un testo narrativo che non si adatta bene all’andamento cinematografico. Tuttavia, le capacità attoriali sorprendenti compensano momenti di vuoto, grazie alla maestria di Archibugi nel dirigere il cast.
Un finale che riscatta il film
Nel complesso, “Il colibrì” stimola la curiosità dello spettatore per il vortice di eventi che si svolgono, ma è la conclusione a dare al film quel significato profondo che resta celato durante lo sviluppo della trama. Sarà un gesto estremo a definire il vero ossimoro di vita e morte, offrendo un’illuminazione su ciò che significa realmente esistere. Questo finale, carico di emozioni e rivelazioni, porta il pubblico a riflettere su quelle complexità esistenziali che caratterizzano la vita, rendendo l’opera di Veronesi un capolavoro indimenticabile, ora rielaborato sul grande schermo.
L’adattamento cinematografico di “Il colibrì” rappresenta una sfida, richiedendo al pubblico di confrontarsi con le sue aspettative nei confronti di una narrazione profondamente intrisa di umano e di fragilità.