San Carlo Borromeo sapete chi è il Santo del giorno

Italia

Era un nobile di alta alcurnia. Suo padre, il conte Gilberto Borromeo, si distinse per il suo talento e le sue virtù. Sua madre, Margherita, apparteneva al nobile ramo milanese dei Medici. Un fratello minore di sua madre venne a cintolare la tiara pontificia con il nome di Pio IV.

Carlo era il secondo dei ragazzi tra i sei figli di una famiglia. Nacque nel castello di Arona, vicino al Lago Maggiore, il 2 ottobre 1538. Fin dai primi anni, ha mostrato grande serietà e devozione. All’età di dodici anni, ricevette la tonsura, e suo zio, Giulio Cesare Borromeo, gli donò la ricca abbazia benedettina di San Gracián e San Felino, ad Arona, che era stata a lungo nelle mani della famiglia. Si narra che Carlo, seppur così giovane, ricordasse al padre che il reddito derivante da questo beneficio apparteneva ai poveri e non poteva essere applicato alle spese secolari, se non quello che veniva usato per educarlo a diventare, un giorno, un degno ministro della Chiesa.

Dopo aver studiato latino a Milano, il giovane si trasferì all’Università di Pavia, dove studiò sotto la direzione di Francisco Alciati, che in seguito sarebbe stato promosso al cardinalato su richiesta del santo. Carlos aveva qualche difficoltà a parlare e la sua intelligenza non era abbagliante, tanto che i suoi insegnanti lo consideravano un po’ lento; tuttavia, il giovane fece grandi progressi nei suoi studi. La dignità e la serietà della sua condotta lo resero un modello di giovani universitari, che avevano la reputazione di essere molto dunque d’astuzia. Il conte Gilberto diede al figlio solo una minima parte delle entrate della sua abbazia e, dalle lettere di Carlo, vediamo che spesso attraversò periodi di vero disagio, perché la sua posizione lo costrinse a condurre un treno di vita di un certo lusso. All’età di ventidue anni, quando i suoi genitori erano già morti, ottenne il grado di dottore. Tornò quindi a Milano, dove ricevette la notizia che suo zio cardinale de Medici era stato eletto papa nel conclave del 1559, in seguito alla morte di Paolo IV.

All’inizio del 1560, il nuovo papa nominò suo nipote cardinale diacono e, l’8 febbraio, lo nominò amministratore della sede vacante di Milano, ma, invece di lasciarlo partire, lo mantenne a Roma e gli affidò numerosi incarichi. Infatti Carlo fu nominato, in rapida successione, legato di Bologna, Della Romagna e della Marca di Ancona, nonché protettore del Portogallo, dei Paesi Bassi, dei cantoni cattolici della Svizzera e anche degli ordini di San Francesco, del Carmelo, dei Cavalieri di Malta e altri.

La cosa straordinaria è che tutti questi onori e responsabilità ricadevano su un giovane che non aveva ancora raggiunto l’età di ventitré anni ed era semplicemente un chierico di ordini minori. È incredibile quanto lavoro San Carlo potesse inviare senza mai correre, basato su un’attività regolare e metodica. Inoltre, trovava ancora tempo da dedicare agli affari della sua famiglia, per ascoltare musica e per esercitarsi. Era molto appassionato di conoscenza e la promosse molto tra il clero, per il quale fondò in Vaticano, al fine di istruire e deliziare la corte pontificia, un’accademia letteraria composta da chierici e laici, alcune delle cui lezioni e opere furono pubblicate tra le opere di San Carlo sotto il titolo di Noctes Vaticanae.

A quel tempo, riteneva necessario attenersi all’usanza rinascimentale che costringeva i cardinali ad avere un magnifico palazzo, una servitù molto numerosa, a ricevere costantemente i personaggi importanti e ad avere una tavola al culmine delle circostanze. Ma nel suo cuore, era profondamente distaccato da tutte quelle cose. Era riuscito a mortificare perfettamente i suoi sensi e il suo atteggiamento era umile e paziente. Molte anime si convertono a Dio nelle avversità; San Carlo ebbe il merito di saper provare la vanità dell’abbondanza vivendo in essa e, grazie a ciò, il suo cuore si staccò sempre più dalle cose terrene. Aveva fatto tutto il possibile per prevedere il governo della diocesi di Milano e per porre rimedio ai disordini che c’erano in essa; in questo senso, il comando del Papa di rimanere a Roma gli rese difficile il compito.

Il Venerabile Bartolomeo di Martyribus, Arcivescovo di Braga, si recò poi nella Città Eterna e San Carlo colse l’occasione per aprire il suo cuore a quel fedele servo di Dio, al quale disse: “Vedete la posizione che occupo. Sai già cosa significa essere un nipote e nipote preditti di un Papa e non ignorare cosa significa vivere nella corte romana. I pericoli sono immensi. Cosa posso fare io, giovane inesperto? La mia più grande penitenza è il fervore che Dio mi ha dato, e spesso penso di ritirarmi in un monastero per vivere come se solo io e Dio esistessi”. L’arcivescovo ha dissipato i dubbi del cardinale, assicurandogli che non avrebbe dovuto lasciare andare l’aratro che Dio aveva posto nelle sue mani per il servizio della Chiesa, ma avrebbe dovuto, piuttosto, cercare di governare personalmente la sua diocesi non appena gli fosse stata offerta l’opportunità. Quando San Carlo seppe che Bartolomeo di Martyribus era andato a Roma proprio allo scopo di rinunciare alla sua arcidiocesi, gli chiese spiegazioni sui consigli che gli aveva dato, e l’arcivescovo dovette usare tutto il suo tatto in una tale circostanza.

Pio IV aveva annunciato poco dopo la sua elezione che intendeva riconvocare il Concilio di Trento, sospeso nel 1552. San Carlo usò tutta la sua influenza ed energia affinché il Pontefice realizzasse il suo progetto, nonostante le circostanze politiche ed ecclesiastiche fossero molto avverse. Gli sforzi del cardinale ebbero successo e il Concilio si riunì nel gennaio 1562. Durante i due anni che durarono la sessione, il santo dovette lavorare con la stessa diplomazia e vigilanza che aveva impiegato per farlo incontrare. Più volte stava per sciogliere l’assemblea, lasciando i lavori incompleti, ma, con la sua grande abilità e con il costante sostegno che dava alle eredità del papa, riuscì a far avanzare l’azienda. Così, nelle nove assemblee generali e nelle numerosissime riunioni individuali, sono stati adottati gran parte dei più importanti decreti dogmatici e disciplinari. Il successo fu dovuto a San Carlo più che a qualsiasi altro personaggio che partecipò all’assemblea, tanto che si può dire che fu il direttore intellettuale e lo spirito guida della terza e ultima sessione del Concilio di Trento.

Nel corso degli incontri morì il conte Federico Borromeo, con il quale San Carlo rimase a capo della sua nobile famiglia e la sua posizione divenne più difficile che mai. Molti presumevano che avrebbe lasciato lo stato clericale per sposarsi, ma il santo non ci pensò nemmeno. Rinunciò ai suoi diritti in favore di suo zio Giulio e fu ordinato sacerdote nel 1563. Due mesi dopo, ricevette la consacrazione episcopale, anche se non gli fu permesso di trasferirsi nella sua diocesi. Oltre a tutti i suoi incarichi, gli fu affidata la supervisione della pubblicazione del Catechismo del Concilio di Trento e della riforma dei libri liturgici e della musica sacra; fu lui ad affidare a Palestrina la composizione della Missa Papae Maecelli. Milano, che era stata per ottant’anni senza un vescovo residente, era in uno stato deplorevole.

Il vicario di San Carlos aveva fatto tutto il possibile per riformare la diocesi con l’aiuto di alcuni gesuiti, ma senza grande successo. Alla fine, San Carlo ottenne il permesso di riunire un concilio provvisorio e visitare la sua diocesi. Prima di partire, il Papa lo nominò legato un latere per tutta l’Italia. I milanesi lo accomodò con la gioia più grande e il santo predicò in cattedrale sul testo “Con grande desiderio ho desiderato mangiare questa Pasqua con voi”. Dieci vescovi suffraganei parteciparono al sinodo, le cui decisioni sull’osservanza dei decreti del Concilio di Trento, sulla disciplina e la formazione del Clero, sulla celebrazione degli uffici divini, sull’amministrazione dei sacramenti, sull’insegnamento domenicale del catechismo e su molti altri punti, furono così sagge che il Papa scrisse a San Carlo per congratularsi con lui. Quando il santo era in adempimento dell’ufficio di legato della Toscana, fu chiamato a Roma per assistere Pio IV sul letto di morte, dove fu anche assistito da San Filippo Neri. Il nuovo Papa Pio V chiese a San Carlo di rimanere un po’ di tempo a Roma per svolgere gli uffici che il suo predecessore gli aveva affidato, ma il santo colse la prima occasione per implorare il Papa di lasciarlo partire e, seppe farlo con tale abilità, che Pio V lo congedò con la sua benedizione.

San Carlo arrivò a Milano nell’aprile del 1556 e subito iniziò a lavorare vigorosamente alla riforma della sua diocesi. Il suo primo passo fu l’organizzazione della propria casa. Poiché considerava l’episcopato come uno stato di perfezione, era estremamente severo con se stesso. Tuttavia, ha sempre saputo applicare discrezione alla penitenza per non sprecare la forza di cui aveva bisogno nell’adempimento del suo dovere, in modo che anche nelle più grandi fatiche conservasse tutte le sue energie. Il reddito di cui godeva era enorme, ma dedicò la maggior parte del lavoro di beneficenza ed era fortemente contrario all’ostentazione e al lusso.

In un’occasione, quando qualcuno ordinò che il suo letto fosse riscaldato, il santo disse, sorridendo: “Il modo migliore per non trovare il letto troppo freddo è andare ad esso più freddo di quanto possa essere”. Francisco Panigarola, arcivescovo di Asti, ha detto nella preghiera funebre per San Carlo: “Del suo reddito non ha usato per uso proprio più di ciò che era assolutamente indispensabile. In un’occasione, quando l’ho accompagnato a una visita in Valle Mesolcina, che è un posto molto freddo, l’ho trovato di notte a studiare, vestito solo con una vecchia tonaca. Naturalmente gli dissi che se non voleva morire di freddo, doveva coprirsi meglio e lui sorrise mentre rispondeva: “Non ho un’altra tonaca. Durante il giorno sono obbligato a indossare il cardinale viola, ma questa è l’unica tonaca veramente mia e mi serve lo stesso in estate come in inverno”. Quando San Carlo si stabilì a Milano, vendette argenteria e altri oggetti preziosi per 30.000 corone, una somma che dedicò interamente ad aiutare le famiglie bisognose. Al suo elemosina fu ordinato di distribuire tra i poveri 200 corone al mese, senza contare le elemose straordinarie, che erano molto numerose. La generosità di San Carlo ha lasciato un ricordo duraturo.

Ad esempio, sapeva come aiutare il Collegio inglese di Douai così liberamente, che il cardinale Allen chiamava San Carlo, fondatore dell’istituzione. D’altra parte, il santo organizzò ritiri per il suo clero. Faceva gli Esercizi Spirituali due volte l’anno e aveva la regola di confessarsi ogni giorno prima di celebrare la Messa. Il suo confessore ordinario era il dottor Griffith Roberts della diocesi di Bangor, autore della famosa grammatica gallese. San Carlo nominò un altro gallese (il dottor Qwen, che in seguito divenne vescovo della Calabria) vicario generale della sua diocesi, e portò sempre con sé un’immagine di san Giovanni Fisher. Aveva il massimo rispetto per la liturgia, così che non diceva mai una preghiera o amministrava alcun sacramento in fretta, in nessun modo quanto fosse grande la sua fretta o quanto fosse lunga la funzione.

Il suo spirito di preghiera e il suo amore per Dio hanno lasciato negli altri una grande gioia spirituale, hanno conquistato i suoi cuori e hanno instillato in tutti il desiderio di perseverare nella virtù e di soffrire per essa. Tale era lo spirito che San Carlo applicò alla riforma della sua diocesi, a cominciare dall’organizzazione della propria casa. La sua casa era composta da cento persone; la maggior parte erano sacerdoti, ai quali il santo pagava profumatamente per impedire loro di ricevere doni da altri. Nella diocesi la religione era poco conosciuta e compresa ancora meno; le pratiche religiose furono sfigurate dalla superstizione e profanate dagli abusi.

I sacramenti erano caduti in abbandono, perché molti sacerdoti sapevano a malapena come amministrarli ed erano indolenti, ignoranti e mal vissuti. I monasteri erano nel più grande disordine. Attraverso consigli provinciali, sinodi diocesani e molteplici istruzioni pastorali, San Carlo applicò progressivamente le misure necessarie per la riforma del clero e del popolo. Queste misure erano così sagge che un gran numero di prelati le considera ancora come un modello e le studia per applicarle. San Carlo fu uno degli uomini più eminenti della teologia pastorale che Dio inviò alla sua Chiesa per rimediare ai disordini prodotti dal decadimento spirituale del Medioevo e dagli eccessi dei riformatori protestanti. Impiegando da una parte la tenerezza paterna e le ardenti esortazioni e, mettendo rigorosamente in pratica, dall’altra, i decreti dei sinodi, senza distinzione di persone, classi o privilegi, egli gradualmente sottomise l’ostinato e arrivò a superare difficoltà che avrebbero scoraggiato anche i più coraggiosi.

San Carlo dovette superare la propria difficoltà di parola, basata sulla pazienza e l’attenzione, perché aveva un difetto nella lingua. A questo proposito, ha detto l’amico Achille Gagliardi: “Mi sono spesso meravigliato che, anche senza possedere alcuna eloquenza naturale, senza avere alcuna attrazione speciale nella sua persona, sia riuscito a operare tali cambiamenti nel cuore dei suoi ascoltatori. Parlò brevemente, con grande serietà e la sua voce difficilmente poteva essere ascoltata; tuttavia, le sue parole hanno sempre prodotto effetto”. San Carlo ordinò che si prestasse particolare attenzione all’istruzione cristiana dei bambini. Non contento di imporre ai sacerdoti l’obbligo di insegnare pubblicamente il catechismo ogni domenica e giorno di festa, fondò la Confraternita della Dottrina Cristiana, che secondo quanto riferito aveva 740 scuole, 3.000 catechisti e 40.000 studenti. Così, San Carlo fondò le “scuole domenicali” due secoli prima che Robert Raikes le introducessero in Inghilterra per i bambini protestanti. San Carlo fece particolare uso del clero regolare di San Paolo (“Barnabiti”), le cui costituzioni egli stesso aveva contribuito a rivedere e, nel 1578, fondò una congregazione di sacerdoti secolari, chiamati Oblati di Sant’Ambrogio che, con un semplice voto di obbedienza al loro vescovo, si rozzarono a sua disposizione per impiegarli a suo piacimento nell’opera della salvezza delle anime. Pio XI in seguito entrò a far parte di quella congregazione, i cui membri sono ora chiamati Oblati di Sant’Ambrogio e San Carlo.

Ma ovunque l’opera riformatrice del santo fu ben accolta, che in certi casi dovette affrontare un’opposizione violenta e senza scrupoli. Nel 1567 ebbe difficoltà con il senato. Alcuni laici che conducevano apertamente una vita poco edificante e si rifiutavano di ascoltare le esortazioni del santo furono imprigionati dal suo ordine. Il senato minacciò, in quell’occasione, i funzionari della curia arcivescovile, e la questione raggiunse il Papa e Filippo II di Spagna.

Nel frattempo, lo sceriffo episcopale è stato picchiato ed espulso dalla città. San Carlo, dopo aver considerato la cosa in modo maturo, scomunicò coloro che avevano partecipato all’attacco. Infine, la sentenza su questo conflitto di giurisdizione favorì San Carlos, poiché nella vecchia legge un arcivescovo godeva di un certo potere esecutivo; ma il governatore di Milano rifiutò di accettare quella decisione. San Carlo si mise quindi in cammino per visitare tre valli alpine: quella di Levantina, quella di Bregno e La Riviera, che i precedenti arcivescovi avevano lasciato completamente abbandonate e dove la corruzione del clero era addirittura maggiore di quella dei laici, con i risultati che si possono immaginare. Il santo predicò e catechizzò ovunque, congedò i chierici indegni e li sostituì con uomini capaci di ripristinare la fede e i costumi del popolo e di resistere agli attacchi dei protestanti zwingliani. Ma i suoi nemici a Milano non gli lasciarono molto tempo in pace. Poiché la condotta di alcuni canonici della collegiata di Santa Maria della Scala (che sosteneva di essere esente dalla giurisdizione dell’ordinario) non corrispondeva alla loro dignità, San Carlo consultò San Pio V, il quale rispose che aveva il diritto di visitare quella chiesa e di prendere contro i canoni le misure che riteneva necessarie. San Carlo apparve poi nella chiesa per fare la visita canonica; ma i canonici lo colpirono con la porta nel naso e qualcuno sparò un colpo alla croce che il santo aveva sollevato con la mano durante il tumulto. Il senato si ergeva a favore dei canonici e presentò a Filippo II di Spagna le accuse più virulente contro l’arcivescovo, dicendo che si era arrogato i diritti del re, perché la collegiata era sotto il patronato reale. D’altra parte, il governatore di Milano ha scritto al Papa, minacciando di bandire il cardinale Borromeo come traditore. Alla fine, il re scrisse al governatore per sostenere l’arcivescovo e i canonici offrirono resistenza per qualche tempo, ma finirono per inchinarsi.

Prima che la questione fosse risolta, la vita di San Carlo era in pericolo ancora maggiore. L’ordine religioso degli Umiliati, che aveva già pochissimi membri ma possedeva ancora molti monasteri e terre, si era sottoposto alle misure riformatorie dell’arcivescovo, ma gli Humiliati erano totalmente corrotti e la loro sottomissione era stata evidente. In effetti, cercarono con tutti i mezzi di convincere il Papa ad annullare le disposizioni di San Carlo e, quando i loro tentativi fallirono, tre priori dell’ordine ordivano un complotto per assassinare San Carlo. Un sacerdote dell’ordine, di nome Girolamo Donati Farina, accettò di tentare di uccidere il santo per venti monete d’oro. Tale somma è stata ottenuta con la vendita degli ornamenti di una chiesa. Il 26 ottobre 1569, Farina si fermò alla porta della cappella della casa di San Carlo, mentre pregava le preghiere della notte con la sua famiglia. I presenti hanno cantato un inno di Orlando di Lasso e, proprio nel momento in cui hanno cantato le parole: “È ora che io ritorni da Colui che mi ha mandato”, l’assassino ha scaricato la pistola contro il santo. Farina riuscì a fuggire nel tumulto che ne seguì, mentre San Carlo, pensando di essere ferito a morte, affidò la sua vita a Dio. In realtà il proiettile aveva toccato solo i suoi vestiti e il suo manto cardinalizio era caduto a terra, ma il santo era rimasto illeso. Dopo una solenne processione di ringraziamento, San Carlo si ritirò per alcuni giorni in un monastero della Certosa per consacrare nuovamente la sua vita a Dio.

Uscito dalla pensione, visitò di nuovo le tre valli delle Alpi e colse l’occasione per visitare anche i cantoni cattolici svizzeri, dove convertì un certo numero di zwingliani e ristabilì la disciplina nei monasteri. Il raccolto di quell’anno andò perduto e, quello successivo, Milano attraversò un periodo di penuria. San Carlo chiese aiuto per fornire cibo ai bisognosi e, per tre mesi, sfamò quotidianamente tremila poveri con il proprio reddito. Poiché era in cattive condizioni di salute, i medici gli ordinarono di modificare il suo regime di vita, ma il cambiamento non produceva alcun miglioramento. Dopo aver assistito a Roma al conclave che elesse Gregorio XIII, il santo tornò al suo vecchio regime e così, presto, si riprese. Ben presto, ebbe un nuovo conflitto con il potere civile di Milano, poiché il nuovo governatore, don Luis de Requesens, cercò di ridurre la giurisdizione locale della Chiesa e di mettere l’arcivescovo in cattive condizioni con il re. San Carlo non esitò a scomunicare Requesens che, per vendicarsi, inviò un plotone di soldati a pattugliare le vicinanze del palazzo episcopale e proibì alle confraternite di riunirsi quando un magistrato non era presente. Filippo II finì per destituire il governatore. Ma quei trionfi pubblici non erano, tra l’altro, la parte più importante della “pastorale” che esalta l’ufficio della festa di San Carlo. Il loro compito principale era quello di formare un clero virtuoso e ben preparato. In un’occasione in cui un sacerdote esemplare era gravemente malato, la gente ha commentato che l’arcivescovo si preoccupava troppo di lui. Il santo rispose: “È chiaro che non sai quanto vale la vita di un buon sacerdote!” Abbiamo già menzionato sopra la fondazione degli Oblati di Sant’Ambrogio, che hanno avuto tanto successo. D’altra parte, San Carlo ha riunito cinque sinodi provinciali e undici sinodi diocesani. Era instancabile nel visitare le parrocchie. Quando una delle sue suffraganee gli disse che non aveva nulla da fare, il santo gli mandò una lunga lista di obblighi episcopali, aggiungendo dopo ogni punto: “Come può un vescovo dire che non ha nulla da fare?” Il santo fondò tre seminari nell’arcidiocesi di Milano per altrettanti tipi di giovani che si preparavano al sacerdozio e chiese ovunque che fossero applicate le disposizioni del Consiglio tridentino sulla formazione sacerdotale. Nel 1575 si recò a Roma per vincere l’indulgenza del giubileo e, l’anno successivo, lo istituì a Milano. Grandi folle di pellegrini giunsero quindi in città, alcuni dei quali contaminati dalla peste, tanto che l’epidemia si diffuse a Milano con grande virulenza.

Il governatore e molti dei nobili lasciarono la città. San Carlo si dedicò interamente alla cura dei malati. Poiché il suo clero non era abbastanza numeroso per assistere le vittime, radunò i superiori delle comunità religiose e chiese loro aiuto. Immediatamente si offrirono volontari molti religiosi, che San Carlo ospitò nella sua stessa casa. Poi scrisse al governatore, don Antonio de Guzmán, gettandogli in faccia la sua vigliaccheria, e lo fece tornare al suo posto, con altri magistrati, per sforzarsi di porre fine al disastro. L’ospedale di San Gregorio era troppo piccolo ed era sempre pieno di morti, morenti e malati che non venivano curati da nessuno. Lo spettacolo portò lacrime a San Carlo, che dovette chiedere aiuto ai sacerdoti delle valli alpine, perché quelli di Milano si rifiutarono, in un primo momento, di andare in ospedale. L’epidemia spazzò via il commercio, portando a carenze. San Carlo ha letteralmente esaurito le sue risorse per aiutare chi era nel bisogno e ha contratto grandi debiti. Si spingeva fino a trasformare in abiti per i poveri, le tende colorate e le tettoie che venivano appese dal palazzo episcopale alla cattedrale, durante le precessioni. I malati venivano collocati in case vuote alla periferia della città e in rifugi di fortuna; i sacerdoti organizzarono corpi di aiutanti laici e furono eretti altari per le strade in modo che i malati potessero assistere alla Messa dalle finestre. Ma l’arcivescovo non si accontentava di pregare, fare penitenza, organizzare e distribuire, ma assisteva personalmente i malati, i morenti e veniva in aiuto dei bisognosi. Gli alti e bassi della peste durarono dall’estate del 1576 all’inizio del 1578. Nemmeno in quel periodo i magistrati di Milano smisero di fare tentativi di mettere San Carlo nei guai con il Papa. Forse alcune delle loro lamentele non erano del tutto infondate, ma tutte rivelavano, alla fine, l’inefficacia e la stupidità di coloro che le presentavano. Quando l’epidemia finì, San Carlo decise di riorganizzare il capitolo della cattedrale sulla base della vita comune. I canonici si opposero e il santo decise allora di fondare i suoi Oblati.

Nella primavera del 1580, ospitò per una settimana una dozzina di giovani inglesi che si stavano recando alla missione d’Inghilterra e uno di loro predicò davanti a lui: era il beato Rudolf Sherwin, che un anno e mezzo dopo sarebbe morto per la fede a Londra. Poco dopo, San Carlo diede la prima comunione a Luis Gonzaga, che allora aveva dodici anni. In quel periodo viaggiò molto e le difficoltà e le fatiche iniziarono a influire sulla sua salute. Inoltre, aveva ridotto le ore di sonno e il Papa dovette raccomandare di non prendere troppo lontano il digiuno quaresimale. Alla fine del 1583, San Carlo fu inviato in Svizzera come visitatore apostolico e nei Grigioni dovette affrontare non solo i protestanti, ma anche un movimento di streghe e stregoni. A Roveredo, la gente accusò il parroco di praticare la magia e il santo fu costretto a degradarlo e consegnarlo al braccio secolare. Non si vergognò di discutere pazientemente i punti teologici con le contadine protestanti della regione e, in un’occasione, fece aspettare il suo entourage fino a quando non riuscì a far imparare a un pastorello ignorante il Padre Nostro e l’Ave Maria. Avendo appreso che il duca Carlo di Savoia si era ammalato a Vercelli, andò immediatamente a trovarlo e lo trovò morente. Ma non appena entrò nella stanza del Duca, esclamò: “Sono guarito!” Il santo gli diede la comunione il giorno dopo. Carlo di Savoia pensò sempre di aver riacquistato la salute grazie alle preghiere di San Carlo e, dopo la sua morte, fece appendere una lampada d’argento nella sua tomba.

Nell’anno 1584, la salute del santo declinò ulteriormente. Dopo aver fondato una casa di convalescenza a Milano, San Carlo partì in ottobre per Monte Varallo per fare il suo ritiro annuale, accompagnato da P. Adorno, S. J. Prima di partire, aveva predetto a diverse persone che gli rimaneva poco tempo per vivere. Infatti, il 24 ottobre si sentì male e, il 29 dello stesso mese, partì per Milano, dove arrivò il giorno della partenza dei fedeli. Il giorno prima aveva celebrato la sua ultima messa ad Arona, la sua città natale. Una volta a letto, chiese “immediatamente” gli ultimi sacramenti e li ricevette dalle mani dell’arciprete della sua cattedrale.

All’inizio della notte tra il 3 e il 4 novembre morì pacificamente, mentre pronunciava le parole “Ecce venio”. Aveva solo quarantasei anni. La devozione al santo cardinale si diffuse rapidamente. Nel 1601, il cardinale Baronio, che lo definì “un secondo Ambrogio”, inviò al clero di Milano un ordine di Clemente VIII affinché, nell’anniversario della morte dell’arcivescovo, non celebrassero una messa da requiem, ma una messa solenne.

San Carlo fu ufficialmente canonizzato da Paolo V il 1º novembre 1610.

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